lunedì 19 marzo 2007

Giorgio Weiss Nota a Iomare

NOTA

La Poesia e il Mare




La poesia e il mare sembrano avere considerevoli tratti in comune, soprattutto sul piano espressivo. Sia l’uno che l’altra posseggono infatti l’ eccezionale capacità di rappresentare efficacemente i moti dell’animo umano.
Il mare - che talvolta ci assale con le sue schiumanti rabbie, i furori e le ripulse espresse con voce furibonda e potente e, altre volte, nella sua insidiosa variabilità, ci accompagna con la monotona e rassicurante nenia della risacca - appare avvicinarsi, con le sue manifestazioni, alla non rara volubilità dei nostri umori.
Quanto alla parola poetica c’è da dire che, tra tutte le altre forme comunicative, è quella che meglio rappresenta i veri sentimenti umani. Sostanzialmente e per sua natura essa è profondamente legata alla estrinsecazione dell’interno sentire.
In tempi remoti i naviganti udivano talvolta provenire dalle vicine rive l’ irresistibile, leggendario canto delle Sirene e quei versi sembrava loro che sorgessero miracolosamente dal mare :
Vieni qui, celebrato Ulisse, onore/ e vanto degli Achei; férmati e ascolta/ la nostra dolce melodia: nessuno/ passato è mai di qua, con la sua nera / nave, senza ascoltare prima il canto/ ch’esce armonioso dalle nostre labbra:/ poi se ne va con più saggezza e gioia” (dal libro XII dell’Odissea nella versione di Giovanna Bemporad).
Sono veramente tanti i poeti che nel corso dei secoli hanno saputo trarre ispirazione dal divo mare, esplorando con le loro rime i misteriosi collegamenti tra le vicende umane e l’appalesarsi dell’elemento marino. Sono visioni paniche che – vedasi Charles Baudelaire in una strofa de La vita anteriore – ci rappresentano marosi gonfi delle immagini del cielo che si mescolano, in modo solenne e mistico, con i potentissimi accordi della loro musica e con i colori del tramonto riflesso dagli occhi.
Omero con l’Odissea e Virgilio con l’Eneide sono, per la nostra cultura, i più alti rappresentanti di una poesia che mirabilmente esalta l’ eroe mentre percorre i perigliosi sentieri marini.
Dante, a sua volta, ha donato alla nostra lingua splendide immagini epigrafiche sulle sottili connessioni tra l’uomo e il mare: “E come quei che con lena affannata/ uscito fuor del pelago alla riva/ si volge all’acqua perigliosa e guata,/ così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,/ si volse a retro a rimirar lo passo/ che non lasciò già mai persona viva” (Inferno I,22-27); “Io venni in luogo d’ogni luce muto,/ che mugghia come fa mar per tempesta,/ se da contrari venti è combattuto” (Inferno V,28-30); “Per correr migliori acque alza le vele/ omai la navicella del mio ingegno,/ che lascia dietro a sé mar sì crudele”(Purgatorio I, 1-3); “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!” (Purgatorio VI, 76-78). E tra gli altri pregevoli versi che andrebbero commentati o almeno citati è doveroso rammentare quelli di opere note come La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, Il battello ebbro di Arthur Rimbaud, La morte per acqua di Thomas Stearns Eliot, Il cimitero marino di Paul Valéry, sino a Capitano mio capitano di Walt Whitman, ormai universalmente noto anche grazie al film L’attimo fuggente.

Queste brevi note sul tema della poesia e del mare vogliono essere un presupposto augurale e propizio ad Iomare, un libro che esordisce nella maniera più compiuta e sapiente, nel segno della spiccata e disinvolta maturità letteraria della sua autrice.
Già fin dal titolo assegnato alla raccolta, Alessandra Palombo ha evidentemente inteso rimarcare la consistenza e la profondità del suo integrarsi con l’ambiente marino. Ella ha avuto la ventura di vivere nell’Isola d’Elba la sua infanzia, l’adolescenza e la giovinezza a stretto contatto con le trasparenti e cangianti acque circostanti, potendo rispecchiare le sue emozioni, le sue gioie e le sue ansie tra gli scogli, nelle insenature e sulle spiagge di quel mare con cui si identifica.
Il percorso stilistico di Iomare non è fatto soltanto di versi. La scrittura si snoda attraverso brevi composizioni poetiche, brani in prosa, epigrafi, dediche e citazioni tratte dalla stampa. Il discorso poetico acquista così una leggerezza e una vivacità che fanno ancor più apprezzare, nella sua ricchezza formale, l’aspetto contenutistico.
Tra le composizioni riunite nel capitolo “Primo mare” sono da porre in rilievo quei versi che rievocano la stagione dell’infanzia, un’età felice nella sua inconsapevolezza : “L’oggi irradia la sua pelle chiara/ ancor calda di letargo breve,/ la pettina, la lava, l’ara tutta/ l’attira a sé lasciandole una benda/ a celare quanto a lei sta preparando,/ il presente cala/ i quadri del prossimo futuro,/ e lei, raccolta la sua essenza, s’avvia/ a penetrare la trama del destino”.
Nella successiva silloge intitolata “Secondo mare” c’è un’altra riprova della grande capacità memorativa dell’autrice che, in pochi tratti, prima in prosa, poi in versi e quindi con un’acconcia citazione, descrive con sapienti pennellate la sua adolescenza.
Mai ho visto una prima volta il mare, di pochi giorni mi posarono sull’onde. Da allora stiamo assieme, a naso in su, a scrutare l’ orizzonte, in compagnia dei venti in alta uniforme, dei cava lloni bianchi, dei temporali e della malinconica pioggia sullo specchio acquoso di bonaccia.”
Provò la ragazza, seduta sulla foglia/ verde e frastagliata della favola,/ a fuggire con la fantasia dalla famiglia,/ a volare sino al fuoco artificiale/ che deflagra,/ svelta afferrando, con scatto felino,/ una fulgida fiamma/ a rischiarare e scaldare l’antro cavo/ del suo ventre.”
Felice chi, perduto nell’amore, non conosce il mare,/ e non gli importa della notte che cala sulle onde.(Teognide, versi 1375-1376 della Silloge teognidea).”
Le navi che rollano alla fonda; il consueto lavoro dei marinai, dei pescatori con il tramaglio e del bagnino con il rastrello; i viaggi per mare per lasciare e tornare all’isola; un granchio che saggia lo scoglio a guadagnare la spiaggia, mentre impassibile il mare sottostante schiuma, sono squarci di vita che emergono, qui e là, nel testo del Terzo e Quarto mare.
Immagini, impressioni e pensieri che sono sempre e comunque debitori del mare, con quel ciuffo d’alghe, quei vortici schiumosi, quei fondali e il salmastro, i cavalloni, la bonaccia, da cui forse non è possibile evadere: “Vibrava la nave che viaggiava nel buio./ Con il suo tutto tornava nell’isola.”
Sommessamente, con una discrezione che è il segno di uno stampo e di una formazione antica, baluginano in quei versi brani venati da inconfessata malinconia: “... da lei si staccavano pensieri/ che in lei tornavano,/ puliti dalle onde,/ sotto forma di cristalli.”; “... come falena che brancola/ a cogliere raggio di luce,/ non le fu dato raggiungere/ l’invisibile traccia// e, sino al prossimo spicchio/ di chiaro, riponeva e/ ripiegava se stessa”; “... suono vaginale/ per chi da gemma a frutto/ è maturato in terra isolata per natura.”; “... malinconica nenia/ in sintesi estrema/ con il mio essere isola.”.
Il percorso prettamente autobiografico di Iomare, giunto alla sua Quinta meta, si apre con una citazione da Ada Negri, così pertinente che l’autrice inevitabilmente fa sua: “Tu immobile starai tra flutto e spiaggia,/ piccola – oh, un punto!... – in mezzo all’infinito”.
Da qui nasce una sezione del volume in cui proseguono i suggestivi versi della Nostra, ma si dà anche un congruo spazio ad alcuni autori molto apprezzati dalla Palombo: da Calvino, presentecon un brillante pezzo sull’assoluta priorità della lettura agli scrittori Maria Corti, Guidacci, Paolini Giachery e Murzi che disquisiscono sulla poesia e le sue verità. “A scavalcare/ la soglia vegetale,/ accolgo, senza remore,/ le visioni scaturite/ dalle unioni di parole”.
In una poesia del Sesto mare l’autrice recita: “...il futuro arretra,/ sguscia, scivola,/ discolo indietreggia,// assisa su schiuma/ sospesa dal suolo,/ attendo schiarisca,/ e si scopra.”
Si ha la sensazione che non serva più che Alessandra Palombo resti sospesa dal suolo ad aspettare che il futuro si esprima. Ella è una scrittrice raffinata. Il suo futuro appare essere già un presente nel campo delle lettere. La “donna dell’isola”, la “donna di mare” è veramente uno “strano animale” – come la definisce nella splendida poesia raccolta nel Settimo Mare. Sinora è stata colei che “oltre il canale allunga il suo sguardo/ e poi si ritrae”; ma adesso è giunto il momento di andare oltre il canale con sotto braccio i versi, e realizzare quell’arcano desiderio (che si intravede in una composizione a chiusura del libro) di divenire orizzonte, varcando idealmente gli ineffabili limiti dell’isola e del mare che la circonda.
La costa sparisce/ la nave è in mare aperto. / Seduta allungo le gambe,/ mi stringo nel piumino per offrire/ al vento solo la pelle del viso./ Ed è lì/ tra mare e cielo, nell’ ora in cui/ la foschia si unisce ai primi raggi/ nell’ ora in cui l’ orizzonte/ è un riflesso sfumato/ che mi appartengo./ L’ orizzonte è nel profondo./ Io sono l’ orizzonte./ Nessuno, neanche la mia carne,/ potrà rapirlo e farlo suo.


Come si sarà notato non si è inteso fare una vera e propria analisi critica del libro, seguendo anche il parere espresso da Valéry ne Gli incanti, secondo cui le poesie andrebbero lette senza alcuna intermediazione, lasciando al lettore una libertà grandissima analoga a quella che si riconosce all’ascoltatore di musica.

Giorgio Weiss

Roma, 11 giugno 2004

venerdì 16 marzo 2007

Brevi cenni sulle letture di Napoleone e il rapporto che ebbe con i libri

Napoleone Bonaparte (Ajaccio 1769- Sant’Elena 1821) frequentò ad Ajaccio e ad Autun istituti diretti da religiosi nei quali ricevette un’educazione tradizionale tipica della formazione del gentilhomme del XVIII secolo.
Nel 1779 fu ammesso alla scuola preparatoria di Brienne-le-Château dove l’insegnamento delle materie umanistiche era affidato ai preti Minimes e quello delle materie scientifiche, tecniche ed artistiche a personale laico. Fu quindi a Brienne che intraprese la carriera militare.
Dai bonshommes come venivano chiamati i religiosi di Brienne rimase sino al 1784 anno in cui iniziò a frequentare la scuola militare reale di Parigi, all’interno del gruppo d’artiglieria. Le materie più importanti erano quelle dedicate alla formazione di un buon soldato (storia geografia, scienze esatte, studio delle fortificazioni) che lo portarono poi col grado di sottotenente ad approfondire l’arte della guerra nell’anno successivo all’interno del reggimento d’artiglieria La Fère a Valenza.
A questi studi specialistici affiancò, sin da quando studiava a Brienne, la lettura dei classici latini e greci ( Omero, Tacito, Plutarco Tito Livio), degli autori del XVIII secolo ( Voltaire, Montesquieu, Rousseau, Raynal), delle opere di Corneille e Racine e dell’inglese Ossian che fu uno degli autori preferiti della sua giovinezza.
Ma da ragazzo la sua attenzione si rivolse soprattutto alla storia della Corsica alla cui vita politica partecipò attivamente.
Pur studiando in continente, riteneva la Francia un paese ostile, la causa dei mali della sua terra tanto che guardò agli avvenimenti rivoluzionari con gli occhi di uno straniero. Sognava di liberare la Corsica dall’oppressione francese e divorava libri che raccontavano la storia dell’isola o trattavano dell’autonomia dei popoli. Perfezionò la conoscenza della lingua italiana per leggere nella versione originale le opere dei cronisti corsi come Giovanni della Grossa, Ceccaldi, Filippini e iniziò a stendere una storia della Corsica e scrisse alcune novelle nella quali esprimeva il suo “odio” contro la Francia.
Nei suoi operette giovanili è facile rintracciare l’influenza di Rousseau dal quale attinse, secondo lo storico Godechot “ad un tempo idee di libertà e di uguaglianza e la conferma della sua volontà di ridare indipendenza alla sua patria”.
Tuttavia, in seguito lo rifiutò in modo netto e anche se rimase in lui una vena sotterranea della sensibilità romantica, nella vita fu un pieno discepolo degli illuministi le cui opere furono sempre presenti nelle sue biblioteche.
Come scrive G. Lefevre, uno dei maggiori storici francesi della prima metà del’900, diventò “un razionalista e un philosophe e lungi dall’affidarsi all’intuizione fa assegnamento sul sapere e sullo sforzo metodico.”
Ecco quindi che il militare e l’uomo di governo usò il libro soprattutto come strumento di lavoro, tanto che uno dei suoi pregi maggiori di soldato fu l’aver applicato correttamente e al momento giusto le tecniche apprese dai saggi di Du Teil, di Saxe, di Guilbert e negli altri trattati militari che nel XVIII secolo erano apparsi in numero sempre maggiore sul mercato librario.
Le sue preferenze dunque andavano verso i libri di storia, di matematica e di arte militare e la lettura gli permetteva di conoscere la realtà per poi modificarla secondo i suoi fini, motivo per cui il libro dal quale non ricavava nessuna utilità era gettato nel fuoco o buttato fuori dalla carrozza.
Secondo lo storico Tarle “ Napoleone è tutto in queste parole: “accumulare le cognizioni per sfruttarle realmente”.
Ma sarebbe troppo semplicistico circoscrivere alla sua attività militare e politica il rapporto con i libri.
Leggere fu un’azione costante nella vita di Bonaparte.
Quando era a Brienne chiedeva al padre rispedirgli volumi della biblioteca di casa, a Valenza frequentava la libreria Aurel e si mise anche in contatto con un libraio di Ginevra, Paul Borde, per avere testi sulla Corsica.
Nei primi tempi in cui visse a Parigi trascorreva molto del suo tempo libero nelle biblioteche.
Leggeva di tutto: poesie, tragedie, opere antiche e moderne, trattati di medicina e di agricoltura. Non amò il romanzo, ma non lo rifiutò come fece per la commedia. Durante la campagna di Russia nel 1812 chiese dei romanzi e dopo la disfatta di Waterloo fu trovato a leggerne uno. La passione per la lettura quindi non venne meno neppure nel momento più critico della sua vita.
Aveva invece un debole per le tragedie perché secondo lui la tragedia è stata la scuola dei re e dei popoli e vi si apprendeva più che dai testi di storia.
Anche se l’ascesa politica e militare farà sì che altre motivazioni di carattere politico e propagandistico si sovrapponessero al suo interesse originario, la lettura personale continuò e generò in lui il desiderio di possedere delle biblioteche.
Soldato e capo di stato organizzò per sé due diversi tipi di biblioteche: le raccolte da campagna e quelle dei palazzi reali.
Le librerie da campagna costituirono il momento più originale in quanto rispecchiavano il modo di vivere attivo, sempre alla ricerca di ulteriori successi in campo militare e di conferme in quello politico.
Per avere la possibilità di leggere sui campi di battaglia, i libri venivano messi in ampie casse di mogano costruite appositamente nella bottega dei Jacob, i mobilieri più famosi della Parigi post-rivoluzionaria e napoleonica.
Per evitare di ritrovarsi a leggere testi non di suo gusto, a Bayonne il 17 luglio 1808 a Schoenbrunn il 12 giugno 1809 dette disposizioni precise. Il numero dei volumi della biblioteca da campagna, fissato a mille nella prima lettera, salì a tremila nella seconda; il formato stabilito in dodicesimo fu poi ridotto in diciottesimo e il numero massimo delle pagine da seicento fu portato a cinquecento.
Inoltre i libri stampati con i caratteri di Didot dovevano avere una legatura sottile per occupare il minor spazio possibile.
Napoleone non riuscì a realizzare questo il sogno di costituire la sua biblioteca da campagna ideale, però queste indicazioni sono preziose per conoscere quali erano le sue materie preferite.
Nella lettera spedita da Bayonne, Bonaparte definisce in maniera meticolosa, il numero dei volumi relativi ai singoli argomenti: 40 di religione, 40 di epica 40 di teatro, 60 di poesia 100 di romanzi e 60 di storia. Il tutto doveva essere poi completato da memorie storiche di ogni tempo.
In quella successiva, la biblioteca ideale assumeva un aspetto grandioso. La quantità delle opere veniva triplicata e gli argomenti però circoscritti alla storia e così suddivisi: 1. cronologia e storia generale 2. storia antica 3. storia del basso impero 4. storia generale e particolare come l’Essai di Voltaire, 5. storia moderna di ogni stato europeo 6. Strabone, la Bibbia e storie della Chiesa.
Tali indicazioni però servivano per iniziare la formazione di una raccolta ben più importante nella quale, accanto alle opere di storia dovevano trovare posto altri 3000 volumi di diverso genere.
Come dimostrano i documenti sopra citati, le raccolte da viaggio furono concepite come un blocco autonomo rispetto a quelle dei palazzi, ma dopo la disastrosa campagna di Russia dove molte casse bruciarono o caddero in mano al nemico Napoleone aveva da risolvere ben altre situazioni e ordinò che la biblioteca da campagna fosse rifornita con i libri delle residenze imperiali nei quali aveva riunito oltre 60.000 volumi.
Nei palazzi, infatti, c’erano due biblioteche, una quella ufficiale, a disposizione di tutta la corte e degli ufficiali e una personale, la biblioteca particolare dell’imperatore.
Napoleone si occupava direttamente e con zelo di tutte le raccolte dei palazzi. Anche se le dimore delle Tuileries, di Trianon e della Malmaison contenevano i nuclei librai più numerosi, Napoleone cercò di evitare di avere più copie di una stessa opera.
Si può anzi azzardare che ogni singola raccolta sia privata che ufficiale fosse ideata e costituita come parte di un’unica ed estesa biblioteca napoleonica.
La collocazione dei libri in luogo diverso non rappresentava, infatti, un ostacolo se è vero quanto racconta Masson in Napoleone intimo che “ un libro letto o visto non esce più dalla sua memoria; se il bibliotecario non lo trova all’istante Napoleone ne descrive minuziosamente la rilegatura, indica il colore della copertina e del dorso, indica il luogo ove il volume può essere stato collocato e in quel posto si deve trovare…”
In ogni libro delle raccolte private veniva inoltre apposto al frontespizio un timbro ovale, di colore verde o rosso, in cui figurava al centro l’aquila imperiale circondata dalla scritta , ma già lo stemma presente al centro dei piatti esterni della legatura ne indicava la proprietà.
Inoltre, sotto lo stemma dorato del piatto anteriore vi era stampato il nome del palazzo reale della cui raccolta il volume faceva parte, usanza già in voga nel 1700. Le opere poi erano registrate in un catalogo e nelle biblioteche regnava, a quanto ci riferisce ancora Masson, un ordine assoluto, metodico. I libri di un palazzo non circolavano in un altro e se li prelevava per le campagne militari aveva poi cura di riportarli al loro posto.
Bonaparte quindi aveva formato a suo uso e consumo una banca del sapere da cui attingere in ogni momento che lo avevano fornito di una vasta griglia di informazioni. Ciò lo portò ad avere una cultura “universale”, orizzontale si direbbe, oggi tanto che Metternich definì limitata la sua preparazione scientifica.
Tutte le sue biblioteche non furono mai dei nuclei chiusi, esse svolgevano una funzione attiva, esistevano perché utili. Napoleone del resto si compiaceva di ostentare il proprio sapere.
Se da ragazzo aveva letto per conoscere e capire la realtà, da imperatore usò il libro per poter dominare gli altri sia militarmente che intellettualmente.


Sandra

lunedì 12 marzo 2007

Raffaele Aragona - Introduzione a Tautogrammi d'amore e d'amarore

Quando, ad un ricevimento, una bella e giovane vedova parigina indossò un abito con sù ricamate ben quindici m, ella andava spiegandone così il significato:



Ma mère m’a mal mariée;
mon mari m’a mal ménagée;
maintenant, monsieur,
ménagez moi mieux.



L’aneddoto, quasi certamente tale, è fondato sul meccanismo del “tautogramma” che, basato sul criterio della ripetizione, potrebbe definirsi come un fenomeno di “allitterazione iniziale”. Più semplicemente si dice “tautogrammatico” un testo nel quale tutte le parole che lo costituiscono iniziano con la stessa lettera; esso genera un rilevante effetto fonico, spesse volte congiunto ad un coinvolgente “effetto filastrocca”.
Il tautogramma si ritrova così spesse volte utilizzato in filastrocche popolari ovvero in epigrammi ironici come quello che veniva ripetuto in giro dicendo di una donna salita sul soglio pontificio dopo la morte di Leone IV e rimasta incinta: Papa, pater patruum, peperit papissa papellum, un esempio in p, come di frequente. Già nel ‘600 Gaspar Dornau scrisse una Pugna porcorum, “la battaglia dei maiali”, 250 versi tutti con parole inizianti con la p (Giovanni Pozzi, invece, data la composizione al 1530 e l’attribuisce al domenicano Leone Plaisant). Altri esercizi, sempre con la stessa lettera iniziale, si devono in tempi recenti ad Achille Campanile (una lunga storia del Povero Piero) e a Margareth Atwood (una favola per bambini, tradotta in italiano da Mattia Diletti, che ha per protagonisti la Principessa Prunella, la Principessa Priscilla, il Principe Primario, tre gatti persiani di nome Pazienza, Prudenza e Perseveranza, e un pointer chiamato Pollice). Una filastrocca popolare del sud dice di un tale Pietro Paolo Parzanese, pittore palermitano (in realtà è il nome, vero, di un poeta irpino) pittò parecchi palazzi per procurarsi poco pane… Anche in p è il tautogramma in latino citato ne Il nome della rosa di Umberto Eco ed è lo stesso Eco che, insieme con i suoi allievi, riscrisse la storia di Pinocchio in forma tautogrammatica, in p, naturalmente. È ancora Eco a proporre ne Il secondo diario minimo alcune biografie tautogrammate (Dante: Dirò di detti dal desir dittati. Dirò di donna deificata. Dirò di demotico dictamine. Dopo dirò di dannate dimore di Dite (di divorator di discendenti), di dolcissimi dolenti (dodici + dodici dignitari dodecannesi), di devoti Dottori dicenti di Degnità di Dio. Dopodiché dirannomi divino. Dopotutto desideravo dicessermelo. Marx: Mio manifesto mostra meta materialistica. Misinterpretati miseri, movete militanti! Mai Moloch maxicapitalistico macchini mire malevole. Morrete, ma mostrerete maestà miniproletari. Kant: Ki kredeva ke kategorie krescessero kuantitativamente?).
Un tautogramma per Federico Fellini, non poteva che essere in f; lo scrisse Benigni in quindici endecasillabi inneggianti al regista: Farò festose frasi formulate (…) filmi fiondando formidabil facce (…) folle fremere fai, femmine, froci.

Càpita talvolta, però, che la remota provenienza o la classicità dell’esempio o ancora la personalità dell’autore lascino in secondo piano la particolarità della struttura (della contrainte, si direbbe in linguaggio oulipiano, della “costrizione”, presso il nostrano Oplepo) e l’abilità dell’autore, indirizzandosi direttamente al contenuto ed alla piacevolezza del verseggiare.

È proprio il caso di questi venti sonetti d’amore (e altrettanti del “non amore”) che, posti vis-à-vis, offrono ad ogni apertura del libro una doppia lettura, duplicata nella forma, ma che trova nella sostanza un’opposizione di toni e di intenzioni. Un contrasto forte o sommesso in una galleria di emozioni che prendono il lettore con una incisività resa ancora più incalzante dalla raffica sonora, naturalmente più forte nel caso del tautogramma consonantico e ancora più sferzante nei versi del “non amore”:



Bello,
benfatto,
beffardo bluffasti,
bissando brucianti
bugie.

Balordo,
bastardo,
banale bifolco,
buffone! Basta?
Bang!



Il linguaggio dell’Autrice è un linguaggio universale, nonostante l’apparente soggettività dei contenuti; esso si snoda nei venti e venti percorsi sfiorando, in modo appassionato o feroce, un’estesa galleria di amati e odiati partners che, nella loro diversità, esauriscono una variegata gamma di caratteri e di comportamenti.
Un’altra dimostrazione, questa – se mai ce ne fosse bisogno – di come la scrittura sous contrainte non contrasta affatto con il concetto-guida di ispirazione e di libertà dell’autore, dell’Autrice, in questo caso, la quale non fa assolutamente avvertire nei suoi versi la presenza di una “costrizione”, bensì una sorta di leit motiv che funge da continuo ispiratore di canto e controcanto.



Raffaele Aragona

Anna Maria Fabiano in italialibri.org

Iomare di Alessandra Palombo

di Anna Maria Fabiano

«Mai ho visto una prima volta il mare, di pochi giorni mi posarono sull’onde».


Questo accade a chi nasce vicino al mare, quasi parte di esso: così è per Sandra Palombo, membro del comitato direttivo del Centro Nazionale di Studi Napoleonici e di Storia dell’Elba, che si sente isolana e che affida ai gabbiani e alla salsedine della sua Isola la storia di se stessa, delle sue emozioni e del suo crescere tra umori e naufragi, zattere e gabbiani, fughe e ritorni.


E orizzonti da solcare, attraverso la mutevolezza della coreografia dei mari, che non a caso sono narrati al plurale.


Tra citazioni, stralci di articoli, meditazioni sul senso della poesia, sulla impossibilità di determinare una poetica che sia universale, se è vero, com’è vero che mare e poesia cercano, attraverso il logos, di fuggire la realtà e non di forgiarla, restando mutevolezza e trasformazione, Sandra crea le sue sezioni dal primo al settimo mare, accompagnandosi nella sua biografia affidata a un verso, a un ricordo, a una presagio, a una ricerca di astrazione calviniana nel proprio cantuccio, libero dalle pastoie dell’esserci senza fusione con lo spirito e la libertà dell’espressione.


Cerco me, nel mio mare,
per capire chi io sia

primo impatto con la propria interiorità, con una ricerca di consapevolezza, con una, strada, qual si voglia, con quei petali di seta che cadono su quelli veri, sogni su non sogni e bisogno di sapersi e di afferrarsi, lasciandosi salsedine.


Dietro le bacche ancora verdi
del cespuglio di agrifoglio
fiuto una presenza…

e il mare culla l’incertezza, forse a volte la fa palpabile ma altre volte ti è compagno di fughe e di rifugi segreti, nelle nenie del vivere.


Dal mare ho appreso a rispettare il vento: ambivalente il mare, vita e morte allo stesso tempo, scoperta e sogno, ma anche attrazione nel gorgo e canto di sirena che aspira voluttuosamente la logica del viaggio.


Tre ragazze in vestaglia
la sera spiluccavano, al buio
testi indigesti e vino pugliese

fuggire e cercare altro, sognare di andare via, di liberarsi d’una prigione galleggiante per mestiere, ché isola è distacco e allo stesso tempo è forza d’attrazione; fuggire, per tornare, per dirigere la nave verso e contro…per confondere la poppa con la prua e il lontano con il vicino.


Tra l’ululare dell’antica pietra,
arrancava la donna

donna di mare, che si rifugia sotto un copriletto di pioggia, e conchiglie, libri, falò, corpo che si fascia di corpo per percepirsi e sapersi donna, persa in tremule fantasie, passione e sospiro, àncora e umida veste di sabbia e di sole che si fonde alla terra.


D’un tratto,
un banco di nebbia
indebolisce la luce.


Dimenticanza, novelle orientali, evasione e fantasia, il tempo che si contorce in se stesso, passato presente futuro senza dicotomia o passaggio; tutto si perde in una sensazione ovattata, fatta di marea, di massaggio dell’acqua e della foschia che appanna la consapevole percezione, di spuma e di deserto interiore, che si gonfia di vento e si tuffa nei gorghi.


Se la mia salvezza sta nel divenire sterile guscio d’ostrica, subdola murena, velenoso scorfano, m’inarco e m’immergo nel mio azzurro per riemergere in me.


È uno strano animale la donna dell’isola, è confine tra mare e cielo, è partenza, è ritorno, è vittoria e sconfitta; guarda l’orizzonte e alla fine è essa stessa orizzonte.


Splendide foto tratte dal libro La mia terrazza all’Isola d’Elba di Gloria Chilanti e il supporto saggistico e tecnico dei poeti Manrico Murzi, Giorgio Weiss, Luigi Cignoni e Tonino Bergera conferiscono al libro Iomare quell’aria di solennità e importanza che l’autrice merita per una poesia fatta di carne e di profondità d’animo, sensuale e mistica allo stesso tempo, e soprattutto vera, perché nata dal rapporto conciso e sistematico con la propria interiorità ed una vicenda umana di tormento e di partecipazione continua al vivere e al cucirsi addosso brandelli di vita come pezzi di un fantastico puzzle.

domenica 11 marzo 2007

Domenico Campana su " Lo Scoglio"

In “Lo Scoglio. Elba Ieri Oggi Domani” II quadrimestre 2005 anno XXXIII n.74 p.53

Autori elbani - Il duca di Sandra * di Domenico Campana

M'ha colpito "Io amo un duca, sapete?" di Sandra Palombo. Perché m'ha colpito? Perché è ben fatto, ma soprattutto per una sua particolarità. Nonostante la struttura non è un racconto realista, tanto meno naturalista.
Questo è l'orientamento della narrativa, che segue la moda della cultura prevalente, l'americana, che non a caso tanto spesso parte dalle scuole di scrittura universitarie. Esse hanno il pregio e il difetto di voler "insegnare a scrivere", giustamente inserendo, nell'epoca tecnologica, il concetto di democrazia. L'arte si può apprendere, tutti possono apprenderla: come tutti hanno il diritto di votare e costruire una società migliore, tutti hanno quello di abbellire il mondo, di dipingere, di filosofare e quant'altro.
La concezione di destino o di dono, addirittura di un daimon che detta,è reazionaria.
A giudicare dai risultati dell'America, se ci esimiamo da quest'ultimo periodo nel quale sono apparsi scrittori insoliti, da Paul Aster a Mark Addon, i risultati non erano particolarmente entusiasmanti, e in ogni caso mostrano un'omogeneità che trova il suo limite nel realismo spicciolo e nell'autobiografismo conclamato, disperso per lo più nelle tipiche tematiche giovanili.
I tentativi di superarlo finiscono per giungere ad un onirismo strampalato, ad una visionarietà drogata più pungente che bella. Anche la nostra letteratura segue un analogo percorso, sia pure con alcune isole molto personali, dove il tentativo di unire la realtà fisica e la realtà fantastica, o percezione dell'immaginario, porta a buoni risultati, (penso a Umberto Casadei), che però escludono il pubblico.
Nel suo racconto sul Duca, Sandra riesce ad attingere l'immaginario con mezzi semplici, con una scrittura dimessa. La storia è tanto nota che si può dire sia la storia di ogni donna. Ma proprio questo, e i mezzi lineari adoperati, portano a risultati ragguardevoli. Mentre spesso la delusione amorosa, l'estinzione
degli ideali, gli schiaffi della vita o il dolore estremo per la morte di una persona assumono i colori struggenti del ricordo personale, qui la levità della narrazione, l'umiltà, saldano disillusione ed elevazione. Ernestina può sembrare matta, uscita da sé e tuffata nell'alienazioe felice dei folli, o degli aspiranti alla follia. Ma il modo privo di tormenti e dissipazioni con cui la sua trasformazione si compie, con cui l'immaginario prende possesso di un essere umano, non concede ripensamenti né stupori. E' un prodigio gentile, simile ai miracoli e agli interventi capricciosi degli dei. Una mano tocca quella di Ernestina e lei sa di essere entrata nella gioia. Da quel momento il sogno la possiede, consentendole di far fronte alla vita e ai suoi doveri.
Mi è piaciuto il tono con il quale l'autrice ci prepara al prodigio elencando i doni e i dolori della sua fede, la fiducia nell'abito talare, l'esperienza senza ribellione della solitudine. Proprio nel suo animo fiducioso si sta preparando l'vento straordinario, lo scatto del prodigio riservato ai fiduciosi e negato ai ripieni di sé. Il marito è un brav'uomo che non s'accorge di niente, e del resto come potrebbe accorgersene? Ernestina non protesta, non minaccia, non chiede. Neppure aspetta. E il Duca non la porta nell'abisso ardente dell'erotismo, o della rivolta, non le mostra castelli incantati, animali magici, depravazioni. L'accompagna nei pellegrinaggi. Le prepara la pasta con il sugo di quaglie. Se mi si consente un suggerimento, eviterei di chiarire troppo il succo dell'avventura prodigiosa. Terminerei con 'vive nella stanza'. A questo punto è evidente che si tratta di una presenza chimerica. 'Nascosto tra le pagine di un libro' forse può ancora andare... Lascerei stare il pennello, perché i Duchi si nutrono di polvere. 'Come succede nelle favole'... ma appunto di una favola si tratta!
E' vero che un dettaglio realistico, nelle narrazioni fantastiche, le rende ancor più vive. Ma è anche vero che spiegando si smorza.



Domenico Campana

* Uno dei quattro racconti che ho pubblicato in Es-Temporanea-24 donne per un romanzo, Genova, Liberodiscrivere,2005.

Costantino Simonelli in Gas-O-Line

Gas-O-Line -n°35 –Agosto 2004

2. Poesie
[Costantino Simonelli]

Questo mese sono felice di presentare su Gas-o-line un gran bel libro di poesie della nostra “bombarola” Alessandra -Sandra Palombo: Io Mare, pubblicato per i caratteri dell’Editore A.Cassan - Liberodiscrivere, con fotografie di Gloria Chilanti,. Introduzione di Manrico Murzi, Nota di Giorgio Weiss.

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Donna, Isola, Mare; su questi tre elementi in simbiosi tra loro si fonda questo piccolo poema dell’esperienza esistenziale e marina di Sandra Palombo.
Già il titolo, Io Mare, senza congiunzioni o preposizioni che intermediano in qualche modo il rapporto, ci dice quanto questo sia talmente stretto da tendere addirittura a volte alla metaforica identificazione.
Bellissimo in tal senso il primo verso di questo passo: “Mai ho visto una prima volta il mare”.

Mai ho visto una prima volta il mare, di pochi giorni mi posarono sull’onde.
Da allora stiamo assieme, a naso in su, a scrutare l’orizzonte, in compagnia dei venti in alta uniforme, dei cavalloni bianchi, dei temporali e della malinconica pioggia sullo specchio acquoso di bonaccia.


Forse l’unica mediazione cercata in questo rapporto sottende la seconda identificazione esistenziale: quello con la sua isola, la sua piccola Isola d’Elba. Perché donna di isola non è come tutte le altre donne, come pure la terra di isola non è come tutte le altre terre: è un minuscolo universo a sé che sta al suo mare con una relazione quasi di genitore- figlia.




La donna dell’isola
è donna di ghiaia di riva rappresa,

è donna di mare
rena che sparse il suo sale
sul manto marino

è occhi innocenti arrossati,
sale asperso dal moto di libere onde,

è tempo che entra ed esce dal cosmo,
al variare del vento,

è amore sulla rena
della piccola spiaggia,
sotto cori invocanti la pioggia.

La donna di mare è uno strano animale,
oltre il canale allunga il suo sguardo
e poi si ritrae

oltre l’alone solare, oltre l’ibisco
si stende supina

la donna dell’isola4
è la Signora dell’acqua
è isola stessa.

Ella muta e rimane se stessa.



E’ il mare che dona lei la vita, che la protegge e l’ammonisce, la plasma, la educa, diventa il suo confessore ed il suo confidente , le conserva e le offre i ricordi, le dà l’ispirazione e le presta la voce; le cadenza le stagioni, e non solo quelle metereologiche, proprio quelle della vita.
E’ da questa molteplicità temporo - spaziale delle immagini e degli scenari che nasce forse l’esigenza di strutturare la raccolta poetica in più canti, numerandoli in senso progressivo: primo… secondo… terzo mare e di inframezzare e corredare i suoi versi con numerose citazioni di altri, autorevoli o non, fino addirittura ad inserire – quasi a voler spezzare un’atmosfera d’idillio e tenersi ancorata al reale – trafiletti di giornale con la data dell’epoca a cui i versi si
riferiscono.
Esperimento inconsueto ed in qualche modo ardito, ma complessivamente pagante.
E’ come se l’ opera di Sandra, per acquisire uno spessore poematico, abbia voluto raccogliere più voci possibili tra quelle che, chi per un verso, chi per l’altro, sono a lei care.
Anche perché in parte nel Quinto e nel Sesto Mare Sandra affronta esplicitamente il tema della evasione letteraria, fatta di lettura e di scrittura divenuta quasi un’esigenza dell’ anima per eludere il fisiologico “isolamento” e proiettare la sua fantasia oltre l’orizzonte consueto, nella quotidianità di altri mondi.



Tremule fantasie
frusciano nel fumo
del mio vizio antico
acceso tra le labbra;

giocano, nella mente,
cosciente dell’oasi
inconsistente,
tra sogno e veglia,
a riconciliare l’animo
con l’orizzonte
dell’andare quotidiano,
che dell’insieme uomo,
di rado, si rammenta.

A scavalcare
la soglia vegetale,
accolgo, senza remore,
le visioni scaturite
dalle unioni di parole.



Gli è da viatico, in questo disporsi ad assorbire e rendere in suo “poieo”, l’emblematico incipit di Calvino in “Se una notte un viaggiatore..” a cui seguono altre citazioni, quasi a formare un dialogo sui massimi enigmi del fare poesia.

Dopo quanto detto, offrire il meglio del meglio dei versi dell’opera di Sandra Palombo, non è cosa facile. Bisognerebbe leggerla tutta per intero per
coglierne l’armonia nella diversità. Tuttavia, per offrire un servizio di presentazione quantomeno invitante, provo a spiluccare qua e là da mare a mare.

Il Primo Mare è l’esordio, quasi ancestrale – sono citati alcuni versetti della Genesi – del percorso del ritrovamento di sé . E’ messa a fuoco la prima infanzia e le prime lusinghe e vanità della vita, ma, - come fa notare Manrico Murzi , che ha curato la presentazione del libro – pesca ancora più nel profondo, pesca nell’ ieri embrionale che è vicenda silente di una previta comunemente misconosciuta, ma che esiste e si nutre di quel “mare amniotico, nostalgico inciampo d’ogni essere umano”.




Grumi di sangue si sciolgono
nel tempio del mio tempo
e il vento di ponente mi trasporta
tra i capelli spettinati
di bambina in posa su una bitta.

Cerco me, nel mio mare,
per capire chi io sia,
come, perché e se vorrei
modificare la cornice del mio seno.



Nel Secondo Mare si colgono le prime effrazioni che la vita ha procurato alla sua adolescenza, le prime mancanze. In uno scenario d’una vecchia Livorno si vede lei ed una nonna premurosa portarla al mare e lì, insieme, nella multiforme varietà di vita d’una spiaggia, provare a dissipare le prime angosce.



La bimba, ferita ante tempo, ascoltava la nonna con la treccia sul capo fugare i fantasmi nell’afa di agosto :

Livorno, la vecchia, ode ancora
sferragliare l’anziano trenino
.
Tra ali d’asfalto portava al mare
nonne e bambini, uomini e donne
seduti su legno,
tra odori di fumo, tagliante l’azzurro.

Sentiero sassoso,
tra il verde dorato, ormai arso dal sole,
conduceva al ristoro:
sabbia rovente frescura di mare,
spuma all’arancia,

un pezzo di schiaccia salata e sabbiosa,
all’ombra odorante di legnosa cabina.


Nel Terzo Mare esplode la giovinezza, il desiderio d’amore, l’incoscienza, l’ardimento; ed il mare diventa un tramite per la libertà; una voglia di ricerca di nuove terre.



Tre ragazze in vestaglia
la sera spiluccavano, al buio,
testi indigesti e vino pugliese.

La bionda aspirava al piacere,
la mora all’amore di un nero,
la rossa a una fiamma soffusa.

Grattavano i muri coi palmi,
rapinavano i giorni
nel vecchio palazzo sul corso.


Stillavo liquori dalle foglie
del mirto selvatico,
con le sue fluorescenze feci ghirlanda
e sulla zolla nuda ramificai vitigni.

Impazzava la luce del giorno,
pesci azzurri sprizzavano
gocce d’argento.




Tra i gabbiani intenti a rimestare
nella via angolare
che amoreggia con il sole,

oscillava nell’acqua
ad osservare il marinaio.

Gettate le parole al vento di scirocco,
volava verso oriente,

pane e acciughe bastavano,
a virare a nuove terre.

Mollate le cime, in solitario,
annientava il panico
timore dell’ignoto;

da lei si staccavano pensieri
che in lei tornavano,
puliti dalle onde,
sotto forma di cristalli.




Nel Quarto Mare la poesia si fa acquerello. E questo dipinge scene di vita quotidiana; l’isola e il mare si fanno mestiere: navigante pescatore, bagnino… Si fanno preda: pesce, granchio… E lei nei versi matura questa specie di appartenenza alla vita ed al pensiero del mare e dell’isola.



La giornata sonnecchia,
rollano le navi alla fonda.

In un’ansa del seno marino
increspato da ipotesi, un bagnino
ripone il rastrello in attesa di tesi.

Sciolti i capelli alle onde
il barometro balla,
i gabbiani chiamano l’acqua,
il binocolo, appannato dal sale,
scruta l’evolversi:
dal mare ha appreso
a rispettare il vento.

Strattona il tramaglio il pescatore.
Sorda alla supplica, sguscia alla rete
la preda di carne pregiata.
Il pesce scompare lasciando la scena .


Un granchio saggia lo scoglio
a guadagnare la spiaggia:
il risultato non è garantito.
Impassibile, il mare sottostante schiuma.

Suoni stranieri ,
rumati dai secoli
in un unico infuso ,
danno tono alla voce
dell’isola ;

Apolide pietra
spugnosa, inglobo
promiscue grafie
fumanti d’inchiostro;

Foresta, libro nell’aria
malinconica nenia
in sintesi estrema
con il mio essere isola.



Del Quinto e Sesto Mare abbiamo già detto, per quanto possibile, come tematica prevalente.
Ma come ad inframezzare, questa volta, l’artificio poetico con vita bruciantemente vissuta, ecco questi bellissimi versi:



Nel buio, del blu tendente al verde, seguivo il ritmo.
A seconda del suono del suono,
viravo o muta ascoltavo.
Ad emularne le mosse mi ritrovai incosciente.
Un faro e la luna a baciarsi nel buio
e via tra i flutti
a rotolarsi le gocce.




Nel Settimo ed ultimo Mare il percorso del riconoscimento di sé si compie. Non è certo definitivo. Né come vita né come poesia. Ma il tragitto l’ha arricchita di ulteriori dubbi ma anche di qualche consapevolezza in più. E d è stato indubbiamente rigenerante.



Carezza di brezza / Inondata da spruzzi/

deterge le gote e aspira le membra,

in sentieri di osmosi /simbiosi

disperdo le ansie

ritrovo il piacere/ Riprovo a rinascere/



E , come ultimo grazie al suo mare:

Là, oltre le onde evanescenti, torno ad esistere, all’alba, come cristallo di salsedine, e il mare mi avvolge e mi veste di trine.

Ma c’è un Post Scriptum in cui Sandra edifica un suo senso della vita. Definitivo?
Dalla categoricità di certe affermazioni :



“E lì non servono domande e risposte/ non serve niente nella culla dell’acqua/ non serve niente… oppure
l’orizzonte è nel profondo/ io sono l’orizzonte/ Nessuno, neanche la mia carne/ potrà farlo suo

sembrerebbe proprio di sì.
Ma allora perché questa tua citazione Sandra?
In ogni autentica creazione c’è sempre qualcosa che Borges direbbe in fuga, perché in fuga
verso spazi indicati ma non esplicitati dalla scrittura: e qui sta in parte il motivo per cui nessun
autore connoterebbe la propria opera come definitiva. ( M. Corti)

E così la vita come la poesia, cara Sandra. C’è un qualcosa che ci sfugge. Fino alla fine di ogni orizzonte, il più ampio, che ci si possa costruire.




La sala odora di caffè e brioches .

Sulle poltrone i passeggeri
della prima corsa si appisolano.

Il buio sbottona il suo abito
per far posto alla luce.

Accosto la porta e muovo in avanti
a scoprire l’orizzonte,
per scoprire che l’orizzonte non è.

Il confine tra mare e cielo
non è che una massa informe
dal colore rosa, pelle rosa di neonato.


Ed è lì
nella mia solitudine
che non è solitudine,
immersa nella natura
che non è natura,
su una nave in navigazione
comprendo di essere il gabbiano
alla ricerca di cibo
tra le onde morbide prodotte dall’elica.

E lì non servono domande e risposte.
Non serve niente nella culla d’acqua .
Non serve niente Non serve niente.
.
Sulle panchine di plastica, asciugo ,
con un fazzoletto, la guazza salmastra,
ripetendo lo stesso identico atto
di milioni di persone che nei secoli
si sono mosse in mare all’alba.

La costa sparisce,
la nave è in mare aperto.

Seduta allungo le gambe ,
mi stringo nel piumino per offrire
al vento solo la pelle del viso.

Ed è lì
tra male e cielo, nell’ora in cui
la foschia si unisce ai primi raggi,
nell’ora in cui l’orizzonte
è un riflesso sfumato
che mi appartengo.

L’orizzonte è nel profondo
Io sono l’orizzonte.

Nessuno, neanche la mia carne,
potrà rapirlo e farlo suo.



Alessandra Palombo, vive e lavora all'Isola d'Elba. Laureata in Lettere e Filosofia all'Università di Pisa, nel 1989, su incarico della Soprintendenza di Pisa, ha curato la scelta dei libri da esporre nella mostra "Lector in Insula – La biblioteca di Napoleone all’Isola d’Elba", allestita presso il Museo di San Martino a Portoferraio e, in seguito a Parigi e al Castello di Fontainebleau.
Membro del comitato direttivo del Centro Nazionale di Studi Napoleonici e di Storia dell'Elba, i suoi studi su Napoleone lettore e in particolare sulla raccolta dell’esilio elbano, sono stati pubblicati sulla Rivista del Centro, nonché in vari volumi e quotidiani. Pur non abbandonando la ricerca storica, da alcuni anni si dedica alla poesia e alla prosa. Un suo racconto dal titolo “ Rito serale” è presente in “Racconti 2002 - Raccolta Autori Vari”, Genova, Liberodiscrivere, 2002, mentre alcune poesie sono state pubblicate nella Rivista di poesia “Poeti & Poesia”.



Costantino Simonelli.

Maurizio Cucchi

POESIA
1/12/2006 - SCUOLA DI POESIA in Specchio

Sandra Palombo, di Portoferraio, propone la sequenza Rosso mobbing . Lavoro interessante, vario stilisticamente, energico. Presenta brevi scatti [«Ribolle nella pancia, la rabbia / sbatacchia ferro contro ferro / con la speranza che Dike oda / l’urlo di impotenza e da lassù / scagli strali d’ira funesta / su chi mi vuole morta / per mobbing.» ] e momenti di ampio respiro, in cui anche il verso si dilata, con qualche appiattimento [«Sogno sempre case strane quando attraverso periodi di particolare tensione.»], ma con una tensione del racconto che lo rende meritevole d’attenzione: «Nel sogno salivo una scala.. //[…] / La casa, di campagna, stava in un grande giardino all’italiana con tanti / alberi secolari e salici e lecci e sughere e viali di ghiaino / […] / Case che hanno le fondamenta a falce di luna, come le barche, instabili e oscillanti, / case buie sotterranee, case che ho poi rivisto nella realtà, / case di campagna e case di città, / case italiane e di paesi lontani».

Emerico Giachery

"Lisola" , 3 agosto,2004 p.12.

La poesia del mare nei versi della Palombo



ALESSANDRA PALOMBO, IO MARE
Fotografie di Gloria Chilanti, Introduzione di Manrico Murzi, Nota di Giorgio Weiss
Editore A.Cassan - Liberodiscrivere

Per spaziare nei cieli della notorietà letteraria oltre i confini dell’Elba saranno preziose a questo libro neonato le ali degli scritti di Manrico Murzi e di Giorgio Weiss, due poeti di notevole fama. Il primo, elbano doc e a tutti gli effetti cittadino del mondo e aperto alle più vaste esperienze;il secondo, ben noto nel Parnaso italiano, non elbano, ma presente in modo generoso e attivo nella vita intellettuale dell’isola. Si aggiungerà subito che per avventurarsi con volo sicuro nei cieli della poesia, e non soltanto della notorietà letteraria, l’autrice ha di per sé buone ali, ali di gabbiano, per restare in chiave marina. Si può salutare con gioiosa simpatia questo libro e una nuova presenza poetica nell’isola, una voce che certo si farà ascoltare e ammirare.
Con la sua bellezza affiorata dalle onde come quella di Venere, l’Elba è luogo ideale per generare letteratura e poesia di mare. Mentre scrivo queste righe guardo la torre di Marciana Marina che ha accolto per anni Raffaello Brignetti, il maggiore dei nostri scrittori di mare. Scrittore e poeta di mare molto apprezzato il già citato Murzi. Due pittori miei amici, tra loro molto diversi per stile e temperamento, Giancarlo Castelvecchi e Italo Bolano hanno celebrato instancabilmente nelle loro opere il mare elbano. Il secondo ha ideato l’immagine della donna-isola, che è presente in questo libro di Alessandra Palombo, specialmente nella parte finale. C’è più di una sintonia tra questo pittore e questa poetessa, generati entrambi, si direbbe, dal mare.
A ben guardare, la tradizione poetica dedicata con pienezza al mare non è ricca come si potrebbe immaginare. Per l’Italia, il solo grande libro marino che mi venga in mente è Ossi di seppia di Montale, il cui cuore è la suite quasi sinfonica di Mediterraneo, che rappresenta il corrispondente meridionale di un’altra suite marina, stavolta nordica, di un altro grande poeta europeo: Nordsee, ossia Mare del Nord nel celebre Libro dei canti (Buch der Lieder) di Heinrich Heine.
Nonostante quello che comunemente si pensa, la scoperta della bellezza del mare, del piacere della spiaggia e del bagno e del nuoto e del navigare, come del resto
la scoperta della grande potenzialità poetica dell’elemento marino non è antica, anche se il primo gran libro della letteratura occidentale, l’Odissea. è libro in gran parte marino. La “scoperta del mare” risale al Settecento ed esplode in età preromantica e romantica. Chi volesse saperne di più può consultare un libro molto documentato tradotto pochi anni fa in italiano, L’invenzione del mare di Alain Corbin.
Si tratta comunque di una grande scoperta soprattutto interiore, che arricchisce la nostra vita e il nostro sentimento del mondo, e questo libro di Alessandra Palombo va letto anche in questa dimensione: come libro di esperienza totale, di intimo arricchimento.
Una certa volontà poematica presiede al libro: ogni sezione prende nome dal mare, da Primo mare a Settimo mare. Il mare scandisce il senso, il ritmo, il divenire di una vita di donna. Il mare si fa parola: negli echi, nel tessuto delle allitterazioni e delle rime. I testi poetici dell’autrice si alternano a prose tratte dalla cronaca quotidiana di anni lontani (fatti di vita minuta registrati dal “Telegrafo”, giornale d’area livornese, e grandi tragedie nazionali come il rapimento di Moro). a passi di poeti e prosatori, in un dialogo aperto con la cultura e con la storia. È una partecipazione che completa il dialogo solitario con il mare-esistenza, che è prima e di là d’ogni storia. Il primo dei passo citati, che conferisce al libro come un crisma di remota sacralità, è quello della Genesi sulla creazione delle acque.
Spigolando qua e là, per suggerire al lettore almeno il sapore della scrittura poetica e qualche barlume dell’assidua ricerca interiore, cito dal libro passi diversi e tra loro lontani. “Cerco me nel mio mare / per capire chi io sia”. “È l’ora di riabbracciare l’anima / per recuperare il futuro”. “Il libeccio si alzava per portare un amore innocente, arroccato per ore sul vento, a vedere le intrepide onde mangiare la spiaggia”. Veramente felice questo attacco: “Mai ho visto una prima volta il mare”. E che dire di queste Tre ragazze in vestaglia?: “La bionda aspirava al piacere, / ,la mora all’amore di un nero, / la rossa a una fiamma soffusa”. “Vibrava la nave che viaggiava nel buio / con il suo tutto tornava nell’isola”. “Acqua di cielo sposa acqua di mare”. “La donna dell’isola / è la Signora dell’acqua / è isola stessa. / Ella muta rimane se stessa”. Quando, nel Post scriptum conclusivo trovo versi come questi “L’orizzonte è nel profondo / Io sono l’orizzonte”, mi viene in mente che ogni cammino poetico non superficiale è un percorso di realizzazione interiore, in qualche modo esemplare. Per usare il linguaggio, a mio parere molto suggestivo, della psicologia profonda di Jung , si è qui realizzato, attraverso il contatto e l’identificazione intensa col mare-esistenza che è anche abisso e mistero, attraverso un’immersione nelle origini amniotiche simboleggiate dalle acque marine, e la progressiva rinascita di ogni riemersa stagione della vita, un processo verso la realizzazione del Sé. Cioè verso l’integrazione dell’Io individuale nella pienezza di un più compiuto e totale destino: l’immagine dell’orizzonte rappresenta questa fondamentale esperienza umana in modo perfetto.



Emerico Giachery

Manrico Murzi - Introduzione a Iomare

Alessandra Palombo, Iomare, Genova, Liberodiscrivere, 2004
pp 7-10

Il percorso acquatico si srotola in orizzontale, curvo per quanto è tondo il pianeta che ci sopporta.
La questua, patita di mare in mare, richiede l’ausilio di un remo-bastone per spingersi tra le onde della memoria: quel bagaglio di passioni, pensieri e palpiti idonei, anche se scompigliati talvolta, a svelare noi a noi stessi affinché si arrivi a conoscere l’essenza del nostro Sé: “cerco me, nel mio mare,/ per capire chi io sia”.
Remo-bastone sono i brani del cantore più amato, Teognide o Achmatova, come le riflessioni meglio incise nell’animo in moto di pellegrinaggio; e persino gli stralci di cronaca o i suggerimenti offerti da qualche giornale a salvaguardia del nostro benessere fisico.
L’unica verticalità è quella che a precipizio va incontro al fondale dell’acqua interiore: ambito esclusivo nel quale guazza lo spirito nella sua smania verso il Settimo Mare; laddove il remo-bastone, deposto, non compare, né serve più, giacché acqua-salata e coscienza-di-sé formano quel tutt’uno chiamato Iomare.
Il gabbiano, gatto che vola, cerca ancora una salpa o una mèndola per la propria fame, ma la ricerca non impegna oltre, né chiede ulteriori risposte.
La geometria delle stelle e dei battiti cardiaci, necessario aiuto alla tribolazione del navigare, è contenuta in un unico cielo senza un Profeta che lo voglia scalare. La metafora deambula il mare al plurale, quella raccolta delle acque alla quale il Padreterno appioppò il nome di “Mari”.
L’evoluzione della gagliardìa vitale ha la sua trama nei liquidi, anche in quello del sangue aggrumato che talora si squaglia e si sparge nello spiazzo consacrato a tempi laici di devoto rigore e religioso rispetto.
Così nel Primo Mare lo spirito, attore scanzonato e immaginifico, alita tra i “capelli spettinati” di un’infanzia in posa, quindi ancora condizionata da una motivata vanità: “modificare la cornice del mio seno”, si chiede.
Le prime bracciate nel sale liquido sono indolenti e lente, foderate di sonno. Ma “l’energetico miele di ecucalipto”, maestro di possessione, ha forza di pazienza nell’attesa dell’impatto con il femminino: l’abbraccio sarà cosmico, in unità di anima e corpo.
Vi è poi il rito della purificazione, come all’ingresso di un recinto sacro, e il momento di cogliere i significati che anelano ai segni vitali, utili per “penetrare la trama del destino”.
Il “poeta ormai cieco” ha buoni gli occhi dell’anima, e gioisce con agio del vento che disfa corolle di fiori e ciocche di capelli, del giuoco che corre sui prati e giù per le valli: Oh, il mare amniotico!, nostalgico inciampo d’ogni essere umano.
Nel Secondo Mare la solitudine e la dispersione dei punti di riferimento diventano angoscia lontana, e i sapori di mare e di terra circolano nelle stanze del cuore più che tra le pareti dello stomaco. Intanto il desiderio spinge ancora oltre le sue occhiate, mentre persone e cose di un amato circuito urbano, qual è in questo caso la Livorno di tempo addietro, rotolano suoni e inciampi graditi.
Nel Terzo Mare, dopo stagioni clementi, è l’inverno che infuria, al punto che lo spirito si fa una girata in groppa a un gabbiano, mentre “pesci azzurri sprizza...no / gocce d’argento”.
Qui si leva l’ode alla navigazione, una delle più belle mai ascoltate: la vita sui bastimenti a vela e i vecchi del mare: si chiamino essi Colombo o Papà Pennello… Il ritorno è sempre all’isola, l’ago della bussola punta allo “scoglio”: all’Elba come a Itaca.
Nel Quarto Mare, in acqua pescatoria, la voce la danno granchi, spugne, polpi: battiti di chele, soffi di piccoli polmoni liberati, guizzi di alette e schizzi di tinticcio… interiorità dedite all’espressione. E sono vive e pulsanti le alghe e le barche, i sassi di fondo e le banchine, le velelle e le petroliere, le darsene e gli oceani.
Nel Quinto Mare vi è smarrimento, sì, ma piena percezione del proprio corpo come barca che ci porta: “a te, acqua, / offro il mio corpo, / a te, onda, di giocare con la nuca, / a te, mare, / di sommergermi, tutta / al largo”.
Nel Sesto Mare, vibra la luce e l’intreccio di fibre e significati patito e operato da dita assidue. Vi è colloquio, finalmente vibrante, e la bella immagine di un atto amoroso: “Un faro e la luna a baciarsi nel buio e / via tra i flutti a rotolarsi le gocce”.
Nel Settimo Mare è la catarsi, l’appagamento dello spirito che si era messo in cammino. L’abbandono “al canto del vento / Voce del mare”: la donna dell’isola, di qualunque isola come luogo circoscritto e separato, è qui disegnata con immagini ricche di un vissuto sacrificale, fino ad essere Persona: l’onda la fa apparire mutevole, ma non è lei che si muove.
Non manca la conclusione di questa musica in acqua: è il Post Scriptum, quel Do che arriva dopo la scalata delle sette note, e fa riprendere il ciclo, evoca resurrezione e speranza. Caffè e brioche sono un riferimento mattiniero che distribuisce consolazione, e però l’intreccio di significati si compie oltre lo stato sensibile, quando l’orizzonte della propria interiorità non conosce né alto né basso, quando l’Iomare percepisce padronanza di dimensioni e stati di coscienza.




Manrico Murzi

Genova, 4 giugno 2004